La mia amica di infanzia parla lenta, ma la riconosco lo stesso. Il naso corto, una piccola gobbetta e la fascia in testa, come venti anni fa.
Beve uno spritz, senza alcol dice, perché ha già preso una birra e allora è meglio così: per via delle medicine.
Perché con il serenase mica va tanto bene.
La mia amica di infanzia è diventata matta, mezza o tutta, non lo so. Era in gamba, studiava recitazione. Ora non recita più mi sa, con le mani impastate e la voce lenta.
Mi racconta del figlio, dell’uomo sbagliato, del tuffo in mare per salvare suo figlio, dei manicomi di oggi, messi negli scantinati degli ospedali. Dimenticati.
Mio marito dice che ci si parla bene, perché delicata e tenera, come la ricordo.
Ma con sette psicofarmaci in più.
Pensavo fosse felice.
No. Non è vero. Ignoravo che esistesse ancora.
Non ricordavo di ricordarla .
Ora si.
Ricordo tutto di allora. E penso che la felicità dovrebbe essere un diritto. Come le cure mediche, ma solo quelle che guariscono.
E la tristezza dovrebbe essere bandita.
Bisognerebbe farle il funerale, alla tristezza. In una chiesa sperduta, su un monte, col paesaggio brullo e granitico, poca gente, un prete, meno empatico di me, che fa sermoni brevi ed efficaci.
Penso che chi è folle riesce ad entrarti nel cuore, all’improvviso, come la pazzia.
E ci resta un pó.
Il tempo di un ricordo, di una notte, di un’idea.
Ti abbraccia a lungo perché incanta, la follia, come le streghe che non vuoi incontrare.
Che banchettano lontano, nel bosco, ma ti sono vicino.
Vicinissimo.
La sfiori, la follia, ti emozioni.
E te na vai, perché i matti fanno paura.
E non lo sanno.