C’è una linea sottile che separa chi è sereno da chi invece no, e non lo sarà mai. È una dogana dove fai i conti con i ricordi, le paure e le intenzioni sbagliate. È un precipizio senza appigli quella tristezza che è tristezza e dolore di tutti, e quindi tuo, che non sfuggi a niente, ma se potessi, fuggiresti via almeno da te e da questa mente perversa che si inceppa e insozza nel fango del dolore, anche quello degli altri. Perché forse così lo provi e ti senti pronto, magari capitasse a te. Una sorta di lungometraggio dinamico sul dolore catartico. Dinamico perché non abbandoni la notizia, la giri e rigiri, come l’impasto per i cappelletti, perché così ti hanno insegnato. Cerchi, le ricette del come si soffre, le immagini giornalistiche e cinematografiche che descrivono come si può morire male, e quanto si soffre . Strisce si, strisce no, guardrail scavalcato o forse no, telefonino? Mano nella mano, compagne di banco, aspettative, sogni, speranze . E poi altre storie di chi resta, appestate dalla sofferenza, e prodighe verso vie di uscita che si sono chiuse, per sempre. Storie sedute ma aggrappate a una vita che è in divenire, vivi tu, vivo io. E mi nutro della vita, finché c’è.
De andrè diceva che crepare a maggio sta brutto, ci vuole tanto e troppo coraggio. Io dico che a Natale non si muore, non si dovrebbe. Morite e muoriamo a Pasqua. Perché almeno ha un senso se pure di risultato finale identico, ma forse incerto.
A Natale si nasce, si ride, si è felici perché nati, e salvati. E invece no. Morti ammazzati.
Sull’asfalto, con la pioggia, da uno che magari, da grande, non voleva fare manco Giuda.